venerdì 23 novembre 2012

Piedi per terra



Premetto che, fin da piccola, ho sempre amato tenere i piedi sollevati da terra. Anche ora, mentre scrivo con il computer appoggiato sulle gambe, i piedi sono appoggiati alla sedia di fronte a me. Non so per quale motivo, posturale, genetico, fisico o che altro. Metaforico, forse? Sollevare i piedi da terra per poi volare via? Non credo. È come un senso di libertà, ma moderato selvaggio al tempo stesso Sedere come una scimmia con le gambe strette al corpo, o allungate a casaccio. Un ritorno alle origini, allora? Forse. Un implicito e complicato cercare me stessa? Ma che ne so.   

Ieri ero a un concerto; conoscevo vagamente il programma, abbastanza gli interpreti, molto bene il mio umore, quel solito nero profondo che soffoca e spegne.
Ero lì, insomma: seduta abbastanza comodamente, le gambe forzate a terra dalle regole dell'etichetta, testa inclinata, mento sostenuto da due dita della mano destra. Tristezza che esplodeva dagli occhi e, quasi, si espandeva dalle orecchie, impedendo alle note che mi fluivano attorno di penetrarmi il cervello e, se così vogliamo dire, l'anima, creando in questo modo una curiosa sensazione di sordità.
D'un tratto, in uno specchio invisibile materializzatosi al mio fianco, mi sono vista: vecchia. I miei diciotto anni riflessi in un ottantuno sfocato.
La musica continuava, mentre io mi spiavo di soppiatto: mi riconoscevo, sotto le rughe e i capelli grigi e scomposti: ritrovavo la mia stessa posizione, lo stesso cardigan abbottonato sulla pancia sporgente, stesso viso vuoto, occhi umidi, testa pesantemente appoggiata alla mano. Il palco con i due musicisti, sostituito da un disco nello stereo. La poltrona, sdrucita e rovinata, posizionata in solitario nel mezzo di un salotto poco illuminato. Le persone che mi circondavano, foto in cornici polverose.

Seduta come ieri, senza poter più sollevare i piedi a causa delle ginocchia mangiate dall'artrosi. 
Seduta come ieri, costretta a una scomoda "non-me", 
mentre dentro mi corrode una catalessi di 
sentimenti                                       - annoiata stanchezza di ogni cosa -
mentre l'anima                                 -consumata dagli anni, ormai usurata-
si strappa a brandelli                        -schiava del tempo già passato-

E quel freddo nelle ossa, tristezza e solitudine annidate nei polmoni pronte a trafiggermi a ogni respiro, quelle torture che mi infliggevo da sola e sentivo nelle due immagini di me.

Mentre la musica procedeva, ho desiderato che, come da vecchia, alla conclusione del disco tutto potesse irreversibilmente fermarsi, e io restassi immobile nella poltrona, per sempre. Cardigan e piedi a terra compresi. Mi ci vedevo bene: tranquilla, in attesa dell'ultima nota. In diminuendo, come la musica. Magari anche con mezzo sorriso. Ancorata per sempre in una poltrona in fin dei conti comoda, anche se senza poggia piedi.
Nota dopo nota, il diminuendo aumentava, la sensazione si intensificava: il desiderio di fine si faceva più definito. Sentivo lentamente la conclusione che si avvicinava a entrambe, e non volevo scappare, non potevo, i piedi arpionati dal pavimento.

Poi la musica si è fermata.                                              Il disco è finito.
Piedi per terra.

Ho atteso, immobile, lo sguardo fisso nel mio specchio ora senza vita. L'ultimo ci aveva raggiunte entrambe?
Ancora un attimo. Muovo un piede, lo sollevo. Agito l'altro.
La fine vera forse non aveva preso anche me.

Poi sono scrosciati gli applausi e, infranto lo specchio, ogni cosa è continuata.


Nessun commento:

Posta un commento