mercoledì 12 agosto 2009

Anni Orsono, In Inghilterra...



Si sa, la cucina italiana fa figo.
In Inghilterra, poi!
Ma all'epoca -estate zerosette, come passa il tempo-, una quattordicenne alla prima esperienza di viaggio all'estero, non si era preparata a dover affrontare le responsabilità che questa fama da cuochi ci comporta.

Era un giorno come tanti altri di una vacanza inglese -forse per molti, una vacanza come tante altre-, piovoso e freddino.
Luglio.
Venerdì pomeriggio, la signora che ospitava una ragazza italiana, tale Melise, sveglia e scattante settantenne in carriera, aveva chiesto alla sua giovane ospite di prepararle una cosa, una cosa che proprio amava da quella volta che -anni e anni orerano- era andata in Italia a Roma, e aveva per la prima volta provato, in un ristorante, quella delizia: il tiramisù.
Zaque, perché era lei la giovane ospite, chi altri, aveva acconsentito.
Subito dopo si era precipitata nella sua camera sgabuzzino a chiamare la mamma: mamma, emergenza. Mi chiede di cucinare. Mi chiede di fare il tiramisù, cosa faccio?
Risposta: il tiramisù, ovvio.
Controrisposta: silenzio.
Controcontrorisposta: prendi nota che ti dico gli ingredienti e come fare...

Un quarto d'ora e una ricarica telefonica dopo, Zaque tornò in cucina brandendo il prezioso foglietto e dando inizio a una puntigliosa ricerca nella sventurata cucina inglese di casa Postping.
Ricerca conclusasi con un bel nulla, la signora era felice portatrice di barattoli di salsa carbonara, maionese, pasta surgelata, cavolfiore bollito con formaggio fuso, ovviamente congelato, ma niente biscotti, niente mascarpone, niente... No, niente un bel niente: l'alcolico c'era e abbondava.
Zaque, dunque, stilò un'ordinata e chiara shopping list completa di disegni per la forma dei biscotti, per poi uscire allegramente a mangiare un pollo fritto e patatine con un amico alto.

Il mattino dopo, la Melise era andata a fare la spesa, tornando a casa dopo aver orgogliosamente acquistato un pacchetto di biscotti rotondi, una scatolina di mascarpone altrettanto rotonda -più o meno una scatola di cibo per gatti- e dodici uova.
Zaque osserva la parata di ingredienti che sfila sul tavolo della cucina, sgomenta /ma che, devo usar tutta quella roba, siamo pazzi? Scritti sembravano meno..../, e trasecola quando, frugando sulla sua scrivania, scopre che il foglietto con la ricetta è sparito.
Improvvisando un collegamento internet di fortuna, collegando il computer con un cavo rosicato e posandolo nell'unico punto con segnale di tutta la cucina -sopra il micronde, per la precisione, che era sopra il frigorifero- , Zaque chiama la mamma.
-Momi, ho perso la ricetta. Mi aiuti a fare il tiramisù?
-Oh mio dio...

-Va bene, allora, cominciamo con la crema di mascarpone: prendi lo zucc....
-Aspetta, aspetta! Mi serve una terrina grande o piccola?
Trovare una scodella per preparare la crema di mascarpone, innanzitutto.
Prima anta della credenza, e una valanga di terrine, scodelle, tazze e teglie travolge la sfortunata cuoca novella.
Con dei riflessi da Spiderwomen, riesce ad acchiappare tutto prima che si sfracellino al suolo, e, mostrando alla mamma i vari modelli, la nostra si trova a scegliere una graziosa terrinetta colorata.
-Bene, adesso prendi le uova e le rompi...Orpetina, devo andare a prendere tuo fratello!
Adesso ricordati: uova e zucchero, mescoli finché non ti si stanno per spezzare le braccia. Poi metti i biscotti, li inzuppi nel caffè e poi sopra la crema. Poi un altro strato di biscotti, crema e cacao. E ricordati il marsala! Poi in frigo. Poi non vedi di non finirtelo...
Zaque ringrazia e chiude la chiamata, offesa nell'intimo: come, non ha fiducia nella mia ferma volontà dietetica?

Mentre rompe le uova e fa per separarle, il suo inconscio si sveglia con una gran voglia di litigare.
-MA CHE FAI! Non si devono separare!-
-E come no!
-No!
-E perchè no?!
-E perchè sì?!
Immaginate la tensione che doveva attanagliare Zaque, se in cucina si stava perdendo a discutere con una terrina nella quale vedeva riflessa una Zaque paranormale con la ferma intenzione di non farle separare le chiare delle uova dai tuorli.
In questo litigio con le uova in mano, si rischia l'incidente di Stato per decidere se separare o no le chiare, dato che la mamma dettando la ricetta aveva sorvolato sul particolare. Il solito difetto dei grandi cuochi che pensano che gli sguatteri sappiano già tutte le regole della cucina.
Alla fine Zaque materiale vince, e separa le uova.

Lo zucchero, adesso: Zaque arraffa tutto quello che trova in cucina e lo butta nella scodella.
Dio che schifezza stucchevole, si può pensare.
Proprio: lo zucchero in giro per casa era fin troppo poco!
La vispa settantenne business-woman, con la scusa del tenersi in forma aveva rimosso quasi totalmente qualsiasi forma di dolcificante che non fosse sotto forma di pastiglietta d'aspartame.
Fortuna volle che in Zaque emergesse l'istinto di sopravvivenza -tiramisù all'aspartame, no grazie- e riuscisse a scovare un pacchetto semi dimenticato nel fondo di una credenza; salva.

Buttati gli ingredienti, inizia a mescolare. E mescolare. E mescolare.
Alla fine aveva un braccio che neanche Nadal...
Dopo aver sudato quattrodici grembiuli da cuoca, posa la terrina e si dà all'arte del mosaico: siccome i biscotti erano rotondi e la teglia no, era nescessaria un'opera di grande pazienza e precisione per arrivare a una soluzione soddisfacente.
Così, dopo un quarto d'ora di perizie biscottiche -biscotti digestivi, tra l'altro, non savoiardi-, la teglia era un'opera d'arte che neanche gli Spilimberghesi se la possono trovare: un mosaico dolce, geometrico e perfetto.

A quel punto Zaque si ricorda che doveva metterli nel caffè, i biscotti.
E di distruggere l'opera non se ne parlava neanche, così si rappacifica con lo strappo alla ricetta decidendo di preparare la bevanda e poi spanderla a cucchiaiate sul mosaico.
Sì, la bevanda.
In Inghilterra è possibile trovare il caffè macinato? E una moca?
Eeeeeeeh.
No.
Caffè solubile, decaffeinato, per giunta.

Fatta la dolorosa scelta di proseguire nonostante tutto -resistere, resistere, resistere!-, Zaque prepara una bella tazzona di beverone, e, sul punto di inizare a spargerla, si ricorda del marsala.
E quello, si mette nel caffè diretto, nella crema o sui biscotti?
Ottima domanda. Ma il quesito più importante è: il marsala c’è, in questa cucina dimenticata da dio?
Dando il via a una nuova ricerca tra varie bottiglie di alcol, viene rinvenuta come unica candidata al luogo di alcolico del dolce, una mezza tanica di Brandy.
Poco male –pensa la Zaque-.
A quel punto una parte di lei che ancora non conosceva, quella masochista, decide di mettere il marsala un po’ dappertutto: così alla fine perlomeno si sta ben sicuri che non mancherà!
A noi che la vediamo da fuori, la vicenda, viene dato sapere che in quel tiramisù alla fine ci finì un quinto di tanica.

Dopo lunghi spargimenti di crema, appiccicamenti di biscotti e spolveramenti di cacao –che comportarono anche grandi spolveramenti della cucina, dato che la scatola di cacao aveva subito un tracollo ed era precipitata sul pavimento creando un fungo di polvere di cacao che non si immagina-, una bella teglietta tiramisudale era pronta.
Zaque, soddisfatta, si spazzola via i resti di crema –degno e meritato premio- con alcuni biscotti debitamente inzuppati nel caffè restante. Che aveva anche il brandy dentro.
Dopodichè, senza capire perché diavolo vedesse tutto un po’ traballante e camminasse un po’ a zigzag, va in camera, perché le è venuto un gran sonno.
La sera dopo cena, orgogliosamente, prende dal frigo la sua opera d’arte, e, felice e contenta, alla faccia del lato dietetico del suo consciosemiconsio, se lo pappa tutto quanto con la felicemente ciboitalianizzata padrona di casa.

sabato 8 agosto 2009

Armando e Tavolozza






Sono seduti sulla panchina, in orto: è un tardo pomeriggio quasi estivo, è metà giugno, e il sole non è ancora tramontato. Fa caldo.
Armando è seduto, il bastone tra le ginocchia, e si guarda attorno.
Sette pali a destra –palo vuoto, palo con zucca, palo vuoto, palo con finocchio, palo vuoto, palo con rosa, palo vuoto-, sette pali a sinistra –un unico roseto da cui spuntano quei tronchetti-.
Sentiero di mattonelle rovinate, pulito dalle foglie.
A destra, dopo i pali, una serie di piantine di pomodori, melanzane e cipolle ordinate in file simmetriche e regolari nelle loro aiuole; a sinistra il roseto: rose rosa antico, rose bianche, rose rosa pallido, rose rosse, poi un glicine bianco che copre l’intero corridio di mattonelle sciupate.
Armando si guarda attorno soddisfatto. E’ proprio un gran bell’orto, il suo; ci ha lavorato tutta la vita, combattendo infinite guerre contro parassiti, veleni, cani che scavavano buche in ogni aiuola, ed uscendone sempre vincitore, a costo di applicare tecniche surreali e di farsi attribuire la fama dello svitato.

“È proprio un bell’orticello, eh cara?”
La gatta sedutagli a fianco alza gli occhi.
È una bella gatta giovane, tonda e panciuta, di uno strapazzo di colori mescolati in modo tanto folle da attribuirle il nome di “Tavolozza”.
Una gatta molto gatta in sé, indipendente e opportunista, ma amorosa e ruffiana ogni volta che le capita l’opportunità.
Segue sempre Armando nelle sue passeggiate in giardino, a coda dritta, zampettandogli dietro e facendo le fusa, arrotolandoglisi attorno alle gambe per farsi grattare la testa.
In quel momento è seduta composta sulla panchina con lui, coda arrotolata, zampe allineate, muso dritto e attento, occhi –verde e giallo uniti in un colore mai visto- socchiusi a scrutare avanti a sé.
Gira la testa, alza gli occhi, guarda Armando, e lo vedi da dentro quegli occhi che con il suo amico lei parla veramente.
Lo guarda, e Armando risponde, parlandole e facendole grandi discorsi sulla sua vita, sulla sua gioventù fuggita, sugli amori passati, sulla paura di morire.
È Tavolozza che ha paura di andarsene: Armando non teme la morte. L’ha guardata in faccia molte volte quando ha fatto la guerra, sa che è solo una vecchia signora da andare a trovare. così cerca di convincere la gatta a fidarsi di lui.

Povero nonno, pensano i nipoti più grandi e i figli del vecchio, guardandolo da dietro le tende delle finestre mentre lui discorre con il felino, è proprio andato.
Tavolozza non sopporta i nipoti di Armando. Quando si dice che gli animali capiscono tutto: lo sa, lei, quello che i nipoti architettano, quello che dicono alle spalle del nonno rimbambito, quello che nascondono dietro sorrisi ipocriti.
È un classico: è la casa di riposo. Ed è domani mattina.
Tavolozza sa che in casa di riposo i gatti non ci stanno. E che assolutamente non si può tenere un orto in terrazzo.
Fermo nella sua testardaggine, Armando sarebbe capace di zappare il parquet della camera, ma sarebbe un episodio da evitare.
“lo so, lo so anche io, ma sai bene che ho sempre il mio asso nella manica” risponde Armando.
La gatta un po’ ci crede, un po’ no.
“vedrai, non ci andremo.”
Lei lo guarda diffidente poi gli struscia la testa contro il ginocchio.
Guardano assieme il sole che tramonta, aspettano gli ultimi raggi.

Il sole è calato, il cielo resta di un rosa e azzurro sbiadito, qualche nuvola intorno.
“andiamo, Tavolozza”.
Armando si alza, la gatta stira le zampe e salta dalla panchina, scuotendosi tutta.
Sono in piedi di fronte alla panchina, immobili –“nonno, vieni dentro!”-.
Armando guarda sorridendo la casa dove ha fatto crescere i suoi figli. Saluta a mente tutti i suoi nipoti, figli, parenti, amici.

“non saprei, Tavolozza. Hai salutato?”
“…”
“benissimo, possiamo andare, cara. Non preoccuparti e stammi vicina.”
Appoggiandosi leggermente al bastone, si gira e cammina lentamente verso il fondo dell’orto, la gatta a fianco, ballonzolante.
E piano piano, pezzetto per volta, Armando svanisce.
Con la gatta, con il suo orto.
Spariscono il cappello, la giacca, il bastone, la coda di Tavolozza.
Là dove c’era il vecchio, adesso c’è il nulla.