venerdì 13 marzo 2009

Panna





Un giorno è arrivata, spaurita e scheletrica, un fantasma sconvolto.
E' arrivata, da dove non si sa, e si è imboscata nella siepe dei fiori di mia mamma -ranuncoli gialli e nontiscordardime-, eclissandosi sotto un cespuglietto. Era estate, allora.
Da una macchia turchese spuntava soltanto qualche ciuffo di pelo latteo, ma a campo libero, quando tutti rientravano in casa, vedevi una zampa che osava uscire dalla tana, un accenno di coda si muoveva lentamente, poi ecco un passetto, e un altro, addirittura un salto fuori dal riparo, quindi appariva: una macchia di luce, un gomitolo di lana bianca, spettro, ombra, teiera zamputa.
Piccola, timorosa, incerta e quasi barcollante in un territorio nuovo si avventurava verso la ciotola piena -eccole, le tanto desiderate crocchette-.
Sfidando le ire della Signora gatta -undici anni e un miagolio con timbro inascoltabile, padrona indiscussa del territorio da tempi immemori- rubava un boccone per divorarlo lontana dalla casa, tornava e ne prendeva un altro, altri due, tre, quattro, tornava e scappava, si saziava di fretta e si rituffava nel cespuglio al minimo rumore dalla porta -umani!-.
E il giorno dopo la stessa, la settimana dopo uguale, il mese dopo la scena era la medesima.
Ma lei era cambiata, giorno dopo giorno, impercettibilmente, finchè un giorno non si è presentata.

E' arrivata, sicura e tonda, la pancia sferica e ondeggiante al ritmo dei passi affrettati.
E' arrivata e si è accovacciata nello zerbino davanti all'ingresso -era arrivato l' inverno.
Si è accomodata, e così ha cominciato a fare ogni giorno, diventando indubitabile inquilina del tappetino.
Dalla palla che formava dormendo -zampe nascoste e coda attorno-, si distingueva appena il muso, piegato sul petto, ma quando bussavi leggermente sulla porta, dall'interno, lei spalancava gli occhi e si girava.
Ti guardava.
Ti perforava, con quelle iridi gialle, con quella profondità abissale, sembrava chiederti cortesemente se ti servisse qualcosa.
Muoveva le orecchie appena, arricciava il naso, spostava la coda, magari perfino si alzava e si sedeva, composta, ma non mollava un attimo: le sue pupille erano fuse alle tue, si annodavano in uno sguardo sicuro, penetrante, lei ti guardava dentro -lo giuro-, lei ti guardava dentro e ti leggeva come un libro aperto -era umana, sì, umana, quella gatta era umana- e tu lì, inebetito, ti lasciavi decifrare da quegli occhi -forse era una strega, una strega trasformata in un gatto / ma le streghe si trasformano in gatti neri e lei era bianca, bianca come il latte, come la carta, una nuvola, piume degli angeli, panna / era un Angelo, allora, sì, un Angelo traformato- cercando di guardarle dentro anche tu, cercando di capire chi fosse in realtà, ma c'era il vetro in mezzo -stupida lastra trasparente- che ti specchiava la vista, gli occhi rimbalzavano sul nulla, e lei, perfettamente immobile -forse solo l'orecchio, là, si agitava appena, o la punta della coda, ecco-, sorrideva.
Era immobile, non cambiava una virgola, neanche la bocca, ma sorrideva.
Gli occhi brillavano, i baffi ridevano, ogni singolo pelo vibrava di una gioia pazzesca, era quasi spaventosa come scena -tu completamente in balia di una gatta che ride-, e allora iniziavi a sorridere a tua volta, o magari ridevi proprio.
Ci parlavi, addirittura.

Quel primo giorno in cui è venuta da me, abbiamo parlato a lungo, guardandoci attraverso il vetro.
Immobili, due statue di marmo davanti e dietro la porta, una davanti all'altra.
Mi conosceva da sempre, ma erano anni che non ci parlavamo.
L'ho guardata, lei mi ha letto dentro fino all'ultima emozione.
Da quel giorno abbiamo deciso che saremmo diventate amiche.

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